Vittorio e la Montagna sparita
«O lu giuvanò...peccà stamatine m’avate spustate ancora la Mundagne?»Franco guardò l’uomo nel letto numero 22, sistemò le medicine sul comodino, riassettò la coperta. Fece per andarsene. Poi ci ripensò e tornò indietro. Non è mica così facile fare l’infermiere.Si fermò di nuovo davanti al letto numero 22 e ci lasciò un sorriso: «Statti tranquillo, Vittò. Mo tu la montagna non la vedi, ma statti tranquillo che sta al suo posto. Stasempre dove l’hai lasciata tu». Era fine turno e la notte non era stata quella che ti auguri possa essere quando tu attacchi a lavorare. Poi lì, al reparto di Medicina Generale, ci appoggiano di tutto un po’. Impacchettano e portano qui. I vecchi sono noiosi. Hanno la pretesa di sentirsi a ottant’anni le forze come quando ne avevano trenta. Stanno sempre a lamentarsi. Nemmeno ci sentono e tu gli devi urlare dentro l’orecchio e più urli e più loro sembrano non capire cosa gli stai dicendo. Ci stanno perfino quelli che si mettono a piangere. Dei vecchi non ti puoi fidare neppure a lasciargli la pasticchetta sul comodino, dentro un pezzo di carta vicino al bicchiere di vetro che si sono portati da casa, perché loro se ne scordano di prenderla e poi succedono i guai. Vittorio, però, era un “cliente” speciale del Reparto.
A modo suo Franco aveva imparato a volergli bene, più di tutto lo rispettava. Era un “cliente fisso” perché oramai si faceva un ricovero ogni mese o mese e mezzo. Una “vacanza”, la chiamava. Per colpa del cuore, principalmente. Da un po’ non pompava più bene e così lui si scompensava. A volte suo figlio la sera non poteva venirein Ospedale per vedere se a Vittorio serviva qualcosa e così mandava, a sua volta, suo figlio. Che però non sempre veniva, se ne scordava, aveva da fare e«lu sì come fa li giuvanutte», lo giustificava Vittorio che, al suo stralunato dissociarsi, alternava lampi di lucidità feroce. Così quando il nipote, lu giuvanotte, non ce la faceva a venire, era Franco - se era di turno – ad aiutarlo, gli tagliava il petto di pollo a pezzetti piccoli e gli sbucciava la mela. E se Vittorio era lucido, Franco gli faceva sempre le stesse domande.
O Vittò, me loracconti cosa avete visto quando siete arrivati sulla montagna a scavare l’acqua? Ma tu un po’ di paura ce l’avevi a toccarla, la montagna? E i tubi d’acciaio, così grossi e pesanti, come ve li portavate fino a su? E’ vero che se li trascinavano i buoi? Com’era quando hai visto per la prima volta la Vallata dell’Inferno? E davanti alla cascata del Pisciarellone voi che avete fatto? Se la giornata era buona, e il più delle volte questa cosa combaciava con le giornate di sole tiepido perché il cervello di Vittorio con il grigio del cielo se ne andava più facilmente a rotolare sulle nuvole, allora iniziava il racconto. A Franco piaceva ascoltarlo anche perché quando parlava della montagna, dell’acqua, del “suo” Ingegnere De Albentiis, la voce di Vittorio pareva riprendere forza rispetto a quando sussurrava invece le sue fantasie sconclusionate, la sua matassa di pensieri arruffati che se ne uscivano dalla linea del tempo e scappavano dispettosi. Scappavano un po’ di qua e un po’ di là e non ce la faceva nessuno a corrergli dietro per riacchiapparli e rimetterli in fila. In ordine, dentro le righe. Il fatto curioso era che Vittorio non tornava mai indietro in quel frullatore impazzito di pensieri fino al punto in cui - per dire - era stato bambino e non piagnucolava neppure chiamando sua madre come facevano invece gli altri vecchi. No. Vittorio scardinava la linea del tempo della sua lunga vita e si incagliava, ogni volta nel suo narrare, sempre nello stesso punto. Sulla Montagna. A quando lui era lì con Ciccuccio e gli altri. E stavano lì, a lavorare. Vittorio aveva trent’anni. Era il 1935.
«O lu giuvanò, alzala un po’ la tenda che non la vedo la Mundagne. Ma perché tu me l’annascunne?»
«Vittò, adesso stai in Ospedale e da qua non si vede dalla finestra, la montagna».
«Ciccù, ma t vu move scì o no? Piccone e badile! Non te lo scordare che noi siamo l’imprRESA Del Fante!», se ne scappava così all’improvviso lontano il pensiero di Vittorio. E chissà che fine aveva fatto in tutto quel tempo il povero Ciccuccio. Magari era già da un bel pezzo terra per i ceci nonostante anche lui, come Vittorio, doveva essere stato un uomo con braccia forti e mani pesanti se aveva lavorato per realizzare la meraviglia dell’Acquedotto del Ruzzo. Per portare l’acqua nelle case. Tubi enormi. Come la fatica, enorme. Il cervello di Vittorio, adesso che era libero di cose da fare e da pensare, se ne tornava sempre più speso lassù al cantiere più epico ed era difficile convincerlo a tornare dentro quel letto d’Ospedale.
Dalla finestra di casa sua, Vittorio aveva invece avuto la grazia dipoterla continuare a vedere, quella Montagna. Ma lì, da quel letto numero 22, fuori dalla finestrariusciva ad acchiappare solo un pezzo di cielo e qualche confusa chioma di alberi. Lui, Franco,era gentile con Vittorio perché a quelli che nella loro vita hanno fatto qualcosa di eccezionale per la comunità, beh qualcosa di bello e di buono gli va riconosciuto. Una volta, sarà stato quattro o cinque ricoveri prima, una volta che Franco era entrato nella camerata con un catino con dell’acqua per lavarlo, Vittorio gli si era raccomandato: «Uè guagliò, non la sprecare però... all’acqua stacce attind che è preziosa…ti credi che giri il rubinetto e quella esce, che è tutto là e quell'acqua non finisce mai...». Pure se il cervello di Vittorio spesso si scioglieva in pappa, Franco quella mattina ci aveva riflettuto e da allora ci stava attento all’acqua. A non sprecarla. Adesso anche quando la mattina si lavava i denti davanti allo specchio del bagno di casa, chiudeva il rubinetto per non far scorrere inutilmente l’acqua e pensava a Vittorio. Lo pensava con un sorriso. «Ciao, Vittò, ci vediamo domani». Ma Vittorio già dormiva con la testa appena girata e quel suo respiro pesante, mezzo seduto su due cuscini. Un po’ sollevato, così respirava meglio.