Un colpo di piccone
Vittorio si guardò dentro allo specchio. Tutte le mattine, all’alba, quando lo faceva, la superficie piccola e macchiata gli restituiva un’immagine del suo viso più scontornata e giallina di quanto fosse davvero. Lui, però, oramai conosceva perfettamente la sua faccia, come fosse una mappa geografica ad un occhio esperto, e sapeva bene quali linee seguire per non sfregiarsi di tagli mentre si faceva la barba. Quella mattina, però, allo specchio la faccia gli sembrava fosse meglio del solito. Non più bella, questo no, ma era come se avesse maturato in una notte più autorevolezza. Meglio, più considerazione di sé. Come se gli fosse cresciuta dentro una stima improvvisa per se stesso , ecco. Era un pensiero pulito e netto, questo che gli attraversava la mente anche se lui, Vittorio, non avrebbe saputo dirlo a parole sue. Sapeva esattamente, però, quello che provava dentro di sé e tanto gli bastava. Perché lui, quel giorno, sarebbe entrato dentro la storia di questa terra teramana. Magari non proprio dentro dentro, perché quello era un posto d’onore per altra gente, forse appena un po’ più defilato ma lui ci sarebbe entrato comunque.
Tanti, da quel giorno e nello scorrere degli anni, avrebbero benedetto il suo nome e quello degli altri operai come lui. Vittorio era sempre stato un bravo operaio, forte e diligente, ma adesso non si trattava solo di lavorare a testa china: quel giorno ci sarebbe stato il primo colpo di piccone al cantiere della stazione ferroviaria. Erano venuti ingegneri e geometri a spiegare quanto fosse importante costruire l’acquedotto. E che toccasse proprio a loro farlo. Gli era piaciuto quell’ingegnere, perché dava fiducia agli operai che non erano ingegneri ma conoscevano tutti molto bene il loro lavoro. Sapevano usare la forza che abitava nelle loro braccia e nelle loro mani, mischiandola sempre all’esperienza. Spesso Vittorio si era sentito dire che non era pagato per pensare, che doveva solo usare le mani perché quelle, sì, erano buone da usare.
Quegli ingegneri, invece, stavolta avevano parlato diversamente. E la cosa gli era piaciuta assai. Si sistemò la coppola chiara sulla testa e si chiuse alle spalle la porta di casa. Sulla ruetta i ciottoli di fiume già splendevano. A marzo le mattine, all’alba, ancora pungevano di freddo il viso sulla barba appena fatta, così l’aria che respirava camminando per i vicoli gli pareva una continua puntura di spilli. Non gli pesava mai doversi alzare così presto la mattina perché faceva parte dei ritmi della sua vita, ma davvero quel giorno era proprio contento.
Sarebbero venuti anche i fotografi per quel primo colpo di piccone che avrebbe iniziato i lavori, anche se lui la pensava diversamente: era uno che veniva dalla strada e ciò che contava, alla fine, non sarebbero state né le foto scattate nè le facce contente né le pacche di incoraggiamento sulle spalle ma solo il fatto che, grazie a tutti loro, nelle case teramane sarebbe arrivata l’acqua. In quelle case sarebbe fiorita la modernità. Basta con la storia dei pozzi, con la fatica di tirare su l’acqua: non poteva pensarci alla felicità bambina di sua sorella né allo stupore di sua madre che proprio non ci voleva credere che fosse roba di questo mondo e, soprattutto, che potesse appartenere anche a gente come loro. Gente semplice, senza voce. E invece quella che il grande acquedotto da realizzare avrebbe portato giù dal torrente Ruzzo - gli pareva già di vederla scorrere dentro i tubi con un rumore un po’ sordo e costante - sarebbe stata acqua limpida. Fresca. Pura. Sarebbe venuta giù dalle montagne fino al mare, toccando ogni casa e in ogni casa salendo. L’opera del secolo, sarebbe stata. Lo aveva detto l’ingegnere, era così. E dentro a quell’opera ci sarebbero stati anche tutti loro, la loro fatica, le loro spalle scorticate dai pesi da trascinare. Teramo e i teramani si sarebbero ricordati per sempre di loro. Si calcò la coppola sulla testa, poi mise le mani in tasca e affrettò il passo per attraversare il ponte di pietra grigia. Fischiettava piano, un fischio allegro e sottile che sorrideva al futuro.
Sentiva una nuova energia attraversargli le mani, in brevi onde continue. Un’energia da scaricare a colpi di piccone. Lui era pronto. Con orgoglio.