Santina e la magìa dei Due leoni
«Santì, vieni qui un po’ qua e fatti pettinare». La voce di sua madre aveva quella venatura di stanchezza sfinita che Santina, a nove anni, aveva imparato già a riconoscere. Non aveva nessuna voglia di stare lì a farsi passare il pettine a denti sottili sottili tra i capelli, che era poi lo stesso con cui sua madre le aveva dato una caccia feroce sulla testa per stanare i pidocchi. La riga in mezzo e le due trecce arrotolate. Ma Santina sapeva anche che era meglio non fare storie. Suo padre stava aspettando. Aspettava lei e suo fratello Umberto.
Lei si doveva pettinare e Umberto aveva le ginocchia di sempre tutte scorticate, con un arabesco di sangue secco e grumoso su cui stava sfregando come un dannato con un fazzoletto in cui aveva sputato. La cosa non iniziava bene e a lei, quando doveva uscire con suo padre e con suo fratello, veniva un mal di pancia forte fortissimo ma se lo teneva segreto per sé e se ne stava zitta e muta. Solo perché sapeva che quello era il male minore. Adesso sarebbero usciti tutti e tre per andare a vedere la nuova fontana di cui Santina aveva tanto sentito parlare in quei giorni nel quartiere, lì a Torre Bruciata, con tutti che sembravano avere dentro un’agitazione contenta per quella novità inaspettata. Suo padre li squadrò tutti e due dalla punta dei piedi fino al ciuffo scarruffato di Umberto e Santina azzardò che, forse, in quel silenzio ci fosse un minimo di approvazione. Lei di quei due leoni di pietra che, come le avevano detto, sputavano acqua era curiosa così come era curiosa di tutto, ma stavolta lo era anche di più. Tant’è che aveva chiesto alla maestra se quei due leoni fossero per caso gli stessi che combattevano contro i cristiani quando gli antichi romani erano padroni di Teramo e dei teramani, un po’ di tempo prima.
A quei leoni ci pensava ogni volta che passava davanti al Teatro romano e alle sue pietre grigie. La maestra, però, le aveva detto di no, che quei due leoni con i romani che stavano sempre a combattere non c’entravano niente ma rappresentavano i due fiumi della città il Tordino e il Vezzola. Gli stessi dove suo fratello d’estate, allegro e spensierato, camminava veloce sulle tavole del ponte a catena per andare a fare il bagno, tornare tardi a casa e prendersi due cuppini dietro la testa. Lei invece no. Nel senso non che lei i cuppini non li prendesse, quelli che le venivano riservati erano solo un po’ più delicati, ma che per lei dei bagni al fiume non se parlava proprio. Quei due leoni fatti di roccia, le aveva spiegato ancora la maestra, erano stati scolpiti per festeggiare il fatto che la rete idrica sarebbe stata ampliata. Santina non è che ci avesse capito un granché ma aveva fatto cenno di “sì” con la testa e pure con le trecce. Adesso camminavano tutti e tre in silenzio, il padre al centro con il cappello in testa e la camicia bianca della messa, in chiesa, la domenica mattina quando il Campanone li chiamava. Con il braccio destro suo padre accompagnava la spalla di Umberto, con la mano sinistra stringeva invece la sua mano così forte che le sembrava di tenerla dentro una morsa. Ma succedeva sempre così ogni volta che uscivano insieme e lei ci si era tanto abituata da avvertire, di quella morsa, solo una piccola fitta.
An che lui voleva Camminavano sui ciottoli di fiume e lungo i vicoli fino a che la fontana dei Due leoni le spuntò proprio di lato. Santina la “sentì” e girò subito senza pensarci lo sguardo a sinistra, che era poi la direzione da dove le arrivavano il rumore e il fresco dell’acqua. Pensò subito che era bella e potente - le venne in mente proprio quella parola, “potente” - e non sapeva neppure se se la meritavano una fontana così bella così vicino a casa loro, che bella certo non si poteva dire. L’acqua che sgorgava tra i due leoni finiva dentro una specie di bacinella e a Santina venne in mente che sembrava una forma di cristallo, un po’ tremolante e viva ai bordi e anche che le ricordava i ghiaccioli trasparenti che si formavano, quando il freddo gelava la neve, sui bordi dei tetti delle case di fronte, come un merletto.
«Umbè - le scappò di dire senza pensarci su - ci pensi che bello sarebbe avere tutta quell’acqua anche fino a dentro casa nostra? Mamma si stancherebbe di meno e forse le cose andrebbero meglio anche a casa». «Ma quant sì stupida, Santì? - Umberto le stroncò così la fantasia, esattamente come faceva ogni volta -. Tu lo sai, o no, che l’acqua ha una direzione? L’acqua scende da sopra e va sotto, mica si può fare il contrario per fare stare comoda a te e mamma? Ricordatelo, mbapì: l’acqua scende e punto. Ripeti con me: va da su a giù. Non può essere mai il contrario e come farebbe allora, spiegami un po’, a salire a casa nostra che stiamo su in cima, al piano di sopra? La fai salire forse per le scale? Pensa a trottà, cammina va». Santina alzò le spalle, sorrise a un piccione che beveva l’acqua raccolta dentro al catino e gli sarebbe voluta correre dietro, solo che quello non era il momento e neppure il posto. E anche lì sorrise ma solo perché sorrideva sempre quando pensava e a lei pensare piaceva assai. Ne era sicura. Sarebbe arrivata una magia, prima o poi, a far salire l’acqua anche a casa loro e non sarebbe salita per le scale. Un sistema, ci voleva solo un sistema e bisognava trovarlo. E se nessuno lo trovava, beh allora vola dire che da grande ci si sarebbe messa lei a studiare come fare. Lui, Umberto, semplicemente non ci arrivava a pensare queste cose. Non perché fosse stupido ma solo perché non sapeva guardare più in là e per lui il mondo finiva là dove lui arrivava a vederlo. Il domani invece non lo vedi, non lo tocchi e non sai neppure cosa ti può portare. I due leoni di roccia la fissavano immobili con i loro occhi ciechi. Ne era sicura: loro le stavano dando ragione.