Amarene
Caterina si guardò i piedi chiusi dentro i sandali blu impolverati dalla strada. Li odiava profondamente quei sandali “con gli occhi” che con i calzìni bianchi, molli e ripiegati su se stessi, le regalavano brutte gambe da maschio. E ci stava che fossero pure sporchi di polvere, anche se la distanza percorsa tenendo per mano sua nonna era breve. O meglio, Caterina non avrebbe saputo dire con certezza quanti passi avessero percorso con quell’andatura lenta da passeggio, ma era certa che fossero stati pochi. La strada era piena di polvere e aveva ai bordi una siepe di bosso così lei, tra un passo e l’altro, staccava una fogliolina e la spezzava in quattro nella mano sentendosi un po’ in colpa per averlo fatto ma pronta a rifarlo di nuovo.
Le piaceva quella siepe che proseguiva fino sotto il balcone di casa, le piaceva soprattutto a giugno quando lì nasceva il miracolo della danza delle lucciole. Le piaceva anche quella breve passeggiata a metà tra pomeriggio e sera, con cui accompagnava sua nonna in chiesa. Si sedevano sempre al primo banco. La nonna aveva una ariosa veletta nera che le copriva il capo e un libricino gonfio di preghiere rivestito di pelle scura con le pagine bordate di rosso cupo. Quel libricino era un’altra delle cose che le piacevano perché dentro aveva, come segnalibro, diversi santini che lei, Caterina, di nascosto disponeva ordinate sul pavimento con le gambe incrociate, come aveva visto fare con le figurine dei calciatori. La messa non l’annoiava ma solo perché, intanto, pensava ad altro come a quando avrebbe indossato anche lei una veletta impalpabile, soltanto bianca.
“Ite, missa est” le congedava padre Adolfo e Caterina sapeva che come ogni sera, sulla strada del ritorno, si sarebbero fermate da donna Maria, che era anche lei una francescana così con sua nonna, tra francescane, si capivano. Si fermavano davanti alla grande casa ad un solo piano sopraelevato a cui si accedeva salendo una scalinata un po’ come si faceva per andare in chiesa, solo con meno gradini e dentro non c’ erano candele da accendere, né statue di santi con i capelli veri e gli occhi di vetro che le venivano,l poi, cupi in sogno la notte. Aperto il cancello a riccioli di ferro scuro si entrava in un posto che assomigliava un po’ a come Caterina immaginava fosse il Paradiso. Il brecciolino chiaro le si infilava nei sandali, fastidioso come poteva essere solo il Purgatorio dove pagare le colpe di aver giocato con i santini di sua nonna, aver mangiato i Ciocorì di nascosto ed essersi sporcata la faccia di rossetto come un pagliaccio. Ad un certo punto, però, il brecciolino veniva inghiottito da un prato verde smeraldo esattamente dello stesso colore della matita preferita dentro il suo astuccio.
Quello invece era il Paradiso perché quel prato era invaso da rose. Rosse. Aranciate. Bianche. Gialle screziate. Caterina pensava che se mai fosse esistita una rosa nera, l’avrebbe trovata lì, nel giardino di donna Maria che con i suoi occhi stretti di uccello, seduta al tavolo del giardino, le aspettava. Allora lei e sua nonna sedevano accanto e Caterina buttava l’occhio curioso alla finestra del salone con le tapparelle abbassate a metà: quel tanto bastava perché potesse sbirciare, all’interno, la coppia di pavoni di vetro blu che erano un’altra cosa che le piaceva assai. Sua nonna e donna Maria intrecciavano discorsi piccoli, del tipo come si preparassero certi biscotti chiamati “rose del deserto” per i quali l’ingrediente imprescindibile era la pazienza e confrontavano certe piastrelle di lana all’uncinetto con cui progettavano di fare coperte per i poveri. Era a quel punto che succedeva quello per cui valeva la pena starsene lì, seduta in silenzio, a dondolare le gambe. La presenza fino a quel momento silenziosa di una cameriera, chiusa in un abito nero con un grembiule bianco annodato in vita e una crestina candida sulla testa, ad un cenno degli occhi di donna Maria prendeva vita e spariva.
Caterina non sapeva dire se fosse giovane o vecchia ma solo che era brutta. O forse era brutta solo perché si portava dentro, come certi adulti, una luce spenta. E come tutte le volte sarebbe tornata dopo qualche minuto con in mano una brocca di vetro trapuntato di piccole stelle. «Solo acqua del rubinetto bella fresca, mi raccomando - era la filosofia di donna Maria e mia nonna annuiva convinta -. Non c’è niente di meglio d’estate della nostra acqua del Ruzzo per togliere la sete». Sollevato il coperchio di un vaso di porcellana bianca a fiorami blu, la donna con la crestina ne tirava fuori con un piccolo mestolo un pugno di amarene lasciando che l’acqua nella brocca si tingesse di rosso. Era la stessa acqua, Caterina ne era sicura, che aveva bevuto l’ultima volta in montagna con suo padre, dopo che la macchina aveva macinato tornanti e tornanti. Quell’acqua fresca, ora venata di rosso amarena, era anche lì. Pronta per lei. Ma che meraviglia.